Sarà che son di
buon umore. Che fuori è una giornata bellissima e fa un caldo
incredibile e ingiusto. Sarà che oggi nessun cliente m'ha fatto
girare le balle. Sarà probabilmente che "Iguana Café", il
precedente, m'aveva talmente fatto incazzare... insomma... sarà
quel che sarà, ma questo disco di Pino Daniele mi sembra molto
meno peggio del solito. Ci vedo un'iper-produzione molto curata
e molto ben rifinita. Mi sembra che Pino ci creda un po' di più.
Persino i duetti con Giorgia, personaggio a mio parere
discutibilissimo in quanto clone delle già modestissime Houston
e Carey, non fanno così orrore. I testi non sono proprio
bellissimi, ma neppure fanno ribrezzo, come troppo spesso,
ultimamente, era accaduto.
Il disco si apre in maniera molto "pinodanielesca": subito si
riconosce quella chitarra santanesca che napoletaneggia in
arabo, tipica del Nostro, come subito si nota un giro di accordi
suo classico, già usato altrove e forse troppo spesso. Però il
risultato non è male e questo "Back Home" non si fa odiare.
Anzi. È un buon brano d'apertura, che molto promette e molto
significa dell'album che andrà a seguire: un'opera che brilla
per suoni perfetti, per cura maniacale degli arrangiamenti e
soprattutto per un uso buono e massiccio, oltre che abbastanza
inedito per l'autore, dell'elettronica. In quasi tutti i brani,
infatti, le sequenze, i tastieroni, le batterie e le percussioni
elettroniche si sprecano. Ma non in un monumento all'elettronica
come potremmo definire, nel bene, "Il Vuoto" di Battiato o, nel
male (forse... chissà) l'ultimo dei Righeira. Qui l'elettronica
si mescola in maniera pressoché perfetta con le chitarre
acustiche, le percussioni vere con quelle "finte", e si sentono,
udite udite, persino degli strumenti che rischiavano il
dimenticatoio. C'è infatti un assolo di sax, pure bello, di Bob
Sheppard, nel primo duetto con Giorgia ("Il Giorno E La Notte")
e una sezione di fiati molto cubana e assolutamente a proposito,
in "Ruhm And Coca". Che il periodo dell'ultrachitarrismo fine a
se stesso, aprioristico e dittatoriale, simbolo di un'epoca più
banale che semplice stia finendo...? La voce di Pino è meno
"flautata" che nel recente passato, anche se purtroppo siamo
lontanissimi dall'oltraggiosa potenza dei tempi d'oro, e la sua
chitarra vola sempre alto e altissimo, impeccabile e perfetta,
anche se le frasi e le improvvisazioni sono sempre le stesse e
in qualche modo sanno di "già sentito". Fatto sta che c'è molto
spazio agli strumenti (più del solito) e questo è un bene in sé.
Soprattutto certifica una scelta che potremmo definire nuova (o
antichissima), ovvero il porre in essere scelte musicali non
troppo occhieggianti ai giovinastri e (non vogliatemene) e non
troppo femminili. Chi mi legge sa come la penso: per me Pino ha
smesso di essere il "Gigante Che Era" da quando la giovane e
bella moglie ha avuto un peso sulle sue scelte artistiche (e
nessuno, neppure -per ipotesi- lui, potrebbe convincermi del
contrario). È diventato femmineo, delicatissimo, come dicevo
"flautato", dimenticandosi del blues e della strada napoletana
che l'avevano fatto nascere e crescere, per ridursi troppo
spesso a far musica "da ascensore". Per carità, benissimo
confezionata, ma pur sempre "da ascensore" o, se preferite, da
sottofondo di un negozio d'abbigliamento e di una pizzeria
trapiantata in terre straniere. Insomma: non so se c'è da
vedere, o intravedere, una rinascita, un ritorno al passato, un
vero ritorno a casa ("Back Home"...?!), ma c'è sicuramente da
sperare. In più Pino ha sempre avuto il vizio di chiudere gli
album con brani significativi di quanto sarebbe accaduto dopo, e
qui "Passo Napoletano", brano di chiusura dell'album, è un vero
capolavoro. L'elettronica delle percussioni, che cambia in
continuazione e mai a sproposito, è perfetta, e la chitarra "methenyana"
canta che è una meraviglia. Il brevissimo testo anglo-partenopeo
(o partenopeo e parte-americano, come avrebbe detto il buon
Arbore) è semplicemente perfetto nel suo minimalismo.
Potrebbe essere la promessa di qualcosa di grande o solo uno
splendido incidente di percorso. Ricompare persino Tony
Esposito. Quello di "Calimba De Luna"... No, quello di prima, ed
evidentemente di adesso, quello che suona, benissimo, le
percussioni. Sta di fatto che dopo aver sentito questo disco più
volte e con la giusta attenzione non provo l'incazzatura che
negli utlimi anni mi prendeva regolarmente dopo aver pagato il
mio volontario e tradizionale "pizzo" allo Zio Pino. O il
prodotto è buono, o sono veramente di buon umore.
Recensione di Primiballi su DeBaser.it
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Articolo aggiunto il 28/05/2014
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