Pino Daniele


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Pino Daniele ed Eric Clapton: Storica notte di chitarre e magie
Fonte Il Mattino

CAVA DEI TIRRENI - Due chitarre sole al comando. Che grondano di blues con il vigore di un «Boogie woogie man» d'altri tempi, anzi di due, il mascalzone latino e quello inglese che si danno la mano, anzi no, perché hanno tutti e due una chitarra da carezzare come la più amata e bella delle donne.
Che rilanciano la leggenda della città nata con il canto delle sirene ed oggi sepolta sotto la munnezza, esposta al pubblico ludibrio dei roghi-fuochi fatui del nostro disonore. «Napule è 'na carta sporca e nisciuno se ne 'mporta», e da quanti anni ce la cantiamo e ce la suoniamo, e per fortuna che c'è il balsamo di Eric Clapton che raddoppia le note di Pino Daniele, la sua flemma che cerca un approccio razionale al canto di speranza e disperazione che «saglie piano piano e tu saje che nun si sulo» perchè lo intonano tutti i diciassettemila dello stadio Simonetta Lamberti, tornato ad antichi fasti.
«Per fortuna che, quando abbiamo capito che avere il San Paolo era impossibile, abbiamo optato per Cava - ragionava prima dello show il Nero a metà - se fossimo riusciti a ottennere piazza del Plebiscito ci saremmo trovati a suonare in mezzo alla munnezza».
Ma un assolo di Manolenta squaglia il sangue nelle vene, come un gol di Maradona, e Napule stanotte è qui, è una festa esorcismo, è una band di «mille culure». Quando Clapton torna dietro le quinte, arrivano uno a uno Steve «motore» Gadd (il più applaudito) alla batteria, Willie «calore» Weeks al basso, Chris «colore» Stainton alle tastiere, Gianluca «melodia» Podio al pianoforte, Mel «re cremisi» Collins al sassofono, e basterebbe il suo ritorno a far segnare questa serata negli annali danieliani.
Ma Pino ci dà dentro, ne ha di emozioni in serbo: lo strumentale «Toledo», «Je so pazzo» con quel «Masaniello è crisciuto» che ora rimanda al neosindaco De Magistris, «A me me piace 'o blues» e tutti sul prato e gli spalti a ridere, sudare, cantare, ricordare, zompare con l'organo Hammond di Stainton. E sona mo', Pino, sona ancora.
E vai mo', Pino, e vai ancora. E Pino va, trova l'appeal pop di «Dimentica», «Dubbi non ho», «Che male c'è», «Sara non piangere», prima di affondare il coltello nella piaga della nostra saudade, della nostra «appocundria»: «Chi tene 'o mare, o ssaje, nun tene niente». Tenera, e calda, e sudata, emozionante come poche, è la notte con il pianoforte di Podio e il tenore di Collins a scandire la malia amara di «Quando» e rilanciare il coro «Massimo, Massimo, Massimo» di osservanza troisiana.
Clapton torna sul palco, tra tanti brani del nuovo amico ha voluto dividere «Per te», pensoso dialogo chitarristico che poi lo lascia al centro del palco per distillare un breve set di purissimo blues: «Key to the highway», «Hoochie Coochie man» e «Crossroads», storie di incroci fatali, anime vendute al diavolo, figli del sacerdote profano Robert Johnson.
Basterebbe qui per restarci nel cuore e nell'anima, come una vecchia canzonaccia o un amore che non sappiamo dimenticare, ma il repertorio in agguato è da batticuore, che te lo godi e lo dedichi a chi non c'è, per un motivo o per l'altro. «Wonderful tonight», e Pino ne ha persino tradotto una strofa: oltre allo strumento, con Eric ora incrocia anche la voce, e che vuoi di più per questa notte letteralmente piena di meraviglie, come «Cocaine», uno dei riff più celebrati della storia del rock. Manolenta maneggia l'argomento con la flemma di un lord, il lazzaro davvero felice manolenteggia alla sua maniera, virando verso la corrente del Golfo.
Poi Pino rimane da solo, una voce, una chitarra e «'O scarrafone», quando riparte con la band è tempo di «Il sole dentro di me» e di «Io per lei», ma soprattutto di «Nun me scuccià» e «Yes I know my way» e la strada del mascalzone latino si incrocia di nuovo con quella del mascalzone very british, e rocka e rolla sulle strade di «Layla», che Eric scrisse per Patty Boyd, rubata al suo amico George Harrison. Clapton non si scompone, tocca la Fender come il mago dei maghi, Daniele trova come entrare in una trama chitarristica che appartiene all'immaginario collettivo planetario, e tutto appare spontaneo, sincero, lontano anni luce dall'intronata routine del cantar leggero. Tu chiamale, se vuoi, emozioni da sogno di una notte di inizio estate.

Federico Vacalebre







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