Antieroe
Per capire Massimo Troisi bisogna innanzitutto partire da Troisi stesso. Un
“personaggio”, diremmo, la cui identità non è affatto facile da cogliere, per la
forza e la profondità con cui intride vita reale e finzione. Vincere su ogni
stereotipo che riguarda l’essenza del mestiere d’attore significa proprio
rendersi permeabile alla verità fondamentale secondo la quale un attore non
sopravvive senza i propri personaggi. Sembrerebbe vero prima di tutto il
contrario, cioè che nessuna creatura esiste senza il proprio creatore. Ma lo è
altrettanto che, per quanto riguarda un personaggio, consistenza e anima,
leggenda, diremmo, sopravvivono anche senza il supporto di un corpo fisico.
Tutti questi presupposti forse non valgono, non completamente, almeno, quando parliamo di un genio come Massimo Troisi. Nemmeno sarebbe sufficiente dire che lui ha raccolto tutta l’espressività e l’“attorialità” napoletane che Totò, Peppino e Eduardo avevano seminato in settant’anni di creazione. Perché Troisi fa di più. Raccoglie tutti gli accenti, le inflessioni, la mimica e la musicalità delle parole, le tiene in bilico il tempo sufficiente a padroneggiarle alla perfezione e poi le sparge su un corpo che è quasi del tutto vergine. Ne risulta una materia insieme viscerale e lirica, attenta e umile, che si fa strada in curve e rettilinei di vicende comprensibili da tutti. Totò aveva intorno un mondo protetto dalla parodia, in cui era possibile muoversi nuotando, come in una vasca dove si tocca sempre. Troisi è più un Eduardo dalla malinconia facile, un Don Chisciotte che combatte solo, senza trovare i termini per descrivere i suoi mulini. E allora inciampa nelle parole, inventa una sorta di “gramelot” dialettale e prosegue la lotta a colpi di sguardi lucidi e gesti scombinati. Troisi è un eroe anti-tutto, che sfugge a ogni denominazione e che, anche laddove il parlato si fa più lento (“Le vie del signore sono finite”, 1987), riflessivo (“Che ora è”, 1989) e poetico (“Il postino”, 1994), diverte sempre.
Benigni
“Non so cosa teneva dint' a capa,
Intelligente generoso scaltro.
Per lui non vale il detto che è del Papa:
Morto un Troisi non se ne fa un altro.
Morto Troisi muore la segreta
Arte di quella dolce tarantella.
Ciò che Moravia disse del poeta
Io lo ridico per un Pulcinella.
La gioia di bagnarsi in quel diluvio
Di "jamme, o' ssaccio, 'naggia, oilloc, azz!".
Era come parlare col Vesuvio,
Era come ascoltare del buon Jazz.
"Non si capisce", urlavano sicuri,
Questo Troisi se ne resti al sud.
Adesso lo capiscono i canguri,
Gli indiani e i miliardari di Hollywoòd.
Con lui ho capito tutta la bellezza
Di Napoli la gente e il suo destino
E non m'ha mai parlato della pizza
E non m'ha mai suonato il mandolino.
O Massimino, io ti tengo in serbo
Fra ciò che il mondo dona di più caro.
Ha fatto più miracoli il tuo verbo
Di quello dell'amato San Gennaro.”
Ecco come Roberto Benigni ricorda
Massimo Troisi. La loro collaborazione risale al 1984, con il famosissimo film
“Non ci resta che piangere”. Considerato dal pubblico una delle pietre miliari
della nuova comicità italiana, è stato spesso maltrattato da certa critica, che
ha accolto tiepidamente il pretesto fantastico che dà vita alla vicenda. Il
maestro Saverio e il bidello Mario, di ritorno da una normale giornata di
lavoro, si ritrovano misteriosamente catapultati alla fine del 1400. Dopo
qualche tentativo di risvegliarsi da questa sorta di sogno, i due decidono di
arrendersi alla situazione, uno con più difficoltà dell’altro, finché nasce
l’idea comune di intervenire negli avvenimenti storici mutandone il corso. Le
gag comprendono quindi incontri con personaggi storici come Savonarola e
Leonardo da Vinci, fino a uno strampalato viaggio in Spagna con lo scopo di
fermare Colombo prima che scopra l’America. “In verità”, commenta Benigni, “non
so perché i critici ci abbiano dato così addosso. Ci siamo solo detti: ‘dobbiamo
fare un film in cui la gente si possa riconoscere, in cui tutti possano
immedesimarsi. A quale giovane, specialmente della nostra generazione, non è mai
capitato di finire nel 1400?’ ” “A tutti e anche a noi” aggiunge Troisi, “quindi
è un film autobiografico”. Dietro a questo scherzo si nasconde l’essenza della
comicità del duo di “Non ci resta che piangere”, allegra e spontanea. “C’era
molta poesia”, dichiara Benigni “nel modo in cui s’intrecciavano le nostre idee.
Scrivere con lui era facile, perché scrivevamo a parole. “Abbiamo girato metri e
metri di pellicola.” Commenta infatti Troisi. “Io dicevo basta, ma continuavamo
a girare, a girare…”
Benigni ricorda con calore il suo amico e collega. Non a caso queste due
personalità rappresentano l’identità regionale tipica del comico italiano che
riesce però a spandere la propria vena coinvolgendo e conquistando l’intera
nazionalità.
Coppa Volpi
Venezia consegna ex-aequo il premio come miglior attore 1989 alla coppia
Mastroianni-Troisi, interpreti del film di Ettore Scola “Che
ora è?”. Si tratta del secondo film (preceduto da “Splendor” e seguito da “Il
viaggio di capitan Fracassa”) in cui Scola si serve del genio di Troisi,
affiancandolo per due volte a Marcello Mastroianni. La storia, che si articola
nell’arco di una giornata – cifra stilistica già nota a Scola – racconta i
tentativi di un padre di recuperare il rapporto quasi perduto con il figlio,
impegnato nel Servizio Militare a Civitavecchia. A valere il premio veneziano è
soprattutto l’equilibrio e lo squilibrio espressi alla perfezione da una
recitazione fatta di gesti e pause. Una delle poche interpretazioni di Troisi in
cui l’istrione proveniente dalla farsa napoletana lascia permearsi da uno stile
asciutto di un genio naturale come Mastroianni, creando un ibrido che ha
affascinato la giuria della Laguna e i cinefili di tutta Italia.
Cuore
Quasi uno scherzo della sorte. Registrata sin dalla giovane età, la disfunzione
congenita alla valvola nitralica di Massimo Troisi accelera la corsa nel corso
dell’anno 1994, toccandolo per l’ultima volta a poche ore dalla chiusura dei set
de “Il postino”, ultimo film interpretato dall’attore napoletano. Proprio una
personalità in grado di colpire così dritto al cuore, con caratteri semplici e
veri, nasce ferita a quest’organo, che si dimostra tutto sommato fragile.
Fragile e pronto a rompersi è anche il tentativo di chi, al peggiorare della
malattia, consiglia a Troisi di fermare la lavorazione del film. Nonostante un
secondo intervento a Houston, da medici specializzati, a distanza di poche
settimane dal ritorno in patria Troisi viene ricoverato di nuovo. Ma questo non
basta a sconfiggerlo. Come se sapesse, anche di fronte al rischio, che la
possibilità di realizzare un altro personaggio – come a dire un altro sogno – se
l’è meritata in pieno. Nessuno, a parte qualche stretto familiare, ha saputo mai
nulla dell’evoluzione e delle cure. Come ricorda Gianni Minà, “al massimo
ci scherzava sopra facendo il verso alle parole di una immortale canzone che
talvolta intonava cercando di imitare Sergio Bruni.”
Daniele Pino
E' un personaggio chiave nella
vita e nella carriera di Massimo Troisi. Prima ancora che una collaborazione
artistica, si tratta di una profonda amicizia. Si conoscono nella trasmissione
televisiva “Non stop” (1976), "...ma stranamente sembrò a tutti e due di esserci
già incontrati". Sono proprio negli anni in cui Pino Daniele maturava
artisticamente, cercando sempre più a fondo una via per inscrivere la
“napoletanità” in ambiti insospettati, come ad esempio la musica blues. Quest’operazione
di contaminazione affascina incredibilmente il coetaneo Troisi, che,
raggiungendo con La Smorfia la TV nazionale, è invece già a buon punto per
quanto riguarda l’esportazione dello spirito partenopeo. La collaborazione parte
da “Ricomincio da tre” (1981) e investe anche “Le vie del signore sono finite”
(1987) e “Pensavo fosse amore… invece era un calesse” (1991). “Tra noi c’era
una grande sintonia.” Racconta Daniele “Era facilissimo lavorare con Massimo,
perché mi lasciava molto campo libero nella scelta delle musiche, nella
proposta, nel gusto: si fidava molto del mio intuito”. Così nascono e crescono
“Tu dimmi quando” e altri successi, che guidati dalla chitarra del “mascalzone
latino” che più che suonare sottolinea ed ammicca, accompagnano momenti di
grande intensità, consolidanti uno stile, stile che i due artisti “recitano”
alla perfezione, in una lingua immediatamente comprensibile.
Eduardo
Troisi è unico nei temi, negli stili, nell’espressione. Ma niente nasce dal
niente. Se si dovesse esaminare tutti gli angoli di un carattere così
sfaccettato, il prisma rifletterebbe la luce di mille ingegni diversi. Si tratta
prima di tutto di “napoletanità”. E se si nomina Napoli si nominano le sue
grandi voci. Totò e Peppino per la recitazione, Viviani, De Filippo e
Scarpetta per la drammaturgia e l’umorismo. Ma dare ai due Eduardo un ruolo
limitato solo alla scelta dei temi e del tono è un’ingiustizia. Anche e
soprattutto dal momento che Troisi, più che a Totò e Peppino, è forse proprio a
Eduardo che deve il carattere vincente e universale dei suoi personaggi. La sua
cifra comica è composta sì da una mimica facciale contratta e basita vicina a
quella di Totò, ma il suo parlato farfugliante e afasico fino
all’incomprensibile e la lunghezza dei monologhi ci rimanda direttamente a
Eduardo. È la maschera comica che deriva dallo straniamento prodotto da una
società alienante, l’espressione di un disagio che da personale diventa
universale attraverso il linguaggio del comico. “Ricomincio Da Tre” (1981) è la
prova generale di questa linea emotiva. Eduardo, qui, compare anche come stampo
per la storia: la famiglia, la scaramanzia, i riti della quotidianità, l’inerzia
di un mondo che non cambia e non cambierà, e poi la crisi dei rapporti
personali, amicali e amorosi. Anna Pavignano, che allora è una giovane
studentessa e che diventerà per un tempo anche sua compagna, co-sceneggia la
pellicola. Lo stile unico che è frutto di questa intensa collaborazione, si
riconoscerà anche nei lavori successivi. L’ombra di Eduardo si spande
influenzando sempre più la scrittura filmica di Troisi/Pavignano e colorando gli
accenti della recitazione di tonalità malinconiche, come a mostrare sempre un
doppio volto, una faccia oscura.
Il postino
L’unica candidatura all’Oscar ricevuta per un film con Troisi. Se n’è fatto un
gran parlare, come sempre quando c’è di mezzo la morte del protagonista. L’aura
mistica che anche il peggior film riesce a raccogliere, quando macchiato da un
lutto improvviso è quasi inevitabile. Questo va a favore di film mediocri, che,
grazie a questa pubblicità immediata, si guadagnano le prime pagine. Sono stati
più di uno, in passato, i casi in cui addirittura si è dubitato della vera morte
di un attore o di un regista, arrivando a trasformare questo stesso sospetto in
un ramoscello in più per far ardere il fuoco della strumentalizzazione. Ecco
quindi che quest’operazione pubblicitaria va invece a scapito di film che, con
ogni probabilità, avrebbero ottenuto comunque un successo assicurato loro dalla
qualità. Successo che sarebbe stato ancor più sincero e meritato senza bisogno
di tirare in ballo gli scherzi della sorte. “Il postino” è stato protagonista di
un’accesa polemica, che ha reso necessarie alcune precisazioni, volute
soprattutto dai produttori stessi. Le critiche della stampa hanno giudicato il
film discontinuo e superficiale, meritevole soltanto per la recitazione di
Troisi e per il messaggio sul significato della poesia e apprezzato negli Stati
Uniti più come “evento tragico” che come pellicola di reale valore.
La sceneggiatrice Anna Pavignano ha commentato: “Se Massimo fosse stato
vivo, io penso che il film sarebbe piaciuto di più e mitizzato di meno, perché
in realtà molti sono andati al cinema con l’emozione bloccata e la paura di
cadere nel patetico”.
La storia della singolare amicizia tra un postino ed il poeta Pablo Neruda è
stata giudicata “incompleta”, “balbettante” con un “Troisi stremato”. Secondo il
pubblico e certa critica meno polemica è invece “triste ma bello”, “lento ma
profondo”. La recitazione di Troisi spinge ancora otre il proprio criterio,
abbandonando quasi del tutto i giochi di parole e affidandosi principalmente
alla mimica facciale.
Napoli
Nell’immaginario profondo e multicolore di Troisi, Napoli è “rinnovata”. È
qualcosa di diverso, di più spesso e maturo. Come un’Atlantide che ogni tanto fa
venire a galla qualche pezzo. Come un iceberg sconosciuto alle navi. Il
personaggio insicuro e in cerca di soluzioni che Troisi mette in scena vorrebbe
scappar via da Napoli, ma allo stesso tempo la difende, la rivaluta nei suoi
pensieri e nelle sue azioni in quanto punto di riferimento a cui tornare sempre,
come vittima di una misteriosa forza centripeta. vuole che sia rivalutato ed è
sempre nei suoi pensieri come punto di riferimento costante. “Napoletanità” non
significa essere nati a Napoli, ma piuttosto appartenere alla cultura partenopea
pur demolendo lo stereotipo che vuole Napoli solare, mangereccia e canterina
(questo l'impegno di Troisi nei suoi lavori). Ecco come Troisi si fa allo stesso
tempo voce di luci ed ombre. Come Pasolini con Roma, anche per quanto riguarda
l’impegno politico, l’attore napoletano costruisce con la sua casa madre un
rapporto nuovo, di odio-amore.
Poesia e voce
Già dalle prime collaborazioni con Pino Daniele e poi con Benigni Troisi mostra
una sensibilità particolare nei confronti della musicalità delle parole. Perché
la poesia non è altro che questo, un senso profondo racchiuso nei termini
ritmici di un verso. Lo spessore si fa abissale e la percezione delle sensazioni
e dei sentimenti del poeta si fa immediatamente intelligibile, grazie a un
linguaggio immediatamente diretto. Troisi si inventa poeta nella recitazione,
consegnando allo spettatore le trame semi-incomprensibili di strati sottostanti,
tramite le quali è possibile seguire l’evoluzione delle vicende e l’effetto che
esse producono sulla superficie umana. Ma bisogna aspettare l’ultimo film, “Il
postino”, il più desiderato e sofferto, per veder realizzato un sogno. Nel
romanzo di Skàrmeta “Il postino di Neruda” Troisi trova raccontata la
vicenda esemplare del grande poeta che proprio tramite la poesia costruisce un
rapporto con un intelletto vergine, che, di conseguenza, “impara la lezione”,
utilizzando le stesse armi per la costruzione di un altro rapporto approfondito,
un rapporto d’amore. Ecco volta in metafora la leggibilità del mondo tramite un
modo altro di vedere le cose. Troisi decide così di realizzare il film,
affidandosi alle parole stesse del poeta cileno, che, interpretato da Philippe
Noiret, trasforma i pomodori in esseri pieni di polpa succosa e vivente, i
carciofi in forti combattenti con le loro lucide corazze. La voce, in questo
ultimo film, viene divisa tra Troisi e pochissimi altri interlocutori, che
sembrano cogliere ed insegnarci a cogliere il senso di un “precisare confuso”.
Pulcinella
vera e propria incarnazione di Napoli, è forse inscindibile da Troisi. Dopo i
primi tentativi di aprire a San Giorgio a Cremano, suo paese natio, un Centro
Teatro a sfondo e scopo politici, Troisi e i suoi si rassegnano a spostarsi a
Napoli, dove il fermento culturale, riguardante soprattutto il teatro, offre
spazi più adeguati. La cultura teatrale italiana di fine anni Sessanta,
soprattutto quella del sud, è ancora legata a doppio filo alla Commedia
dell’Arte. Le prime scene calcate da Massimo Troisi sono quelle di una farsa di
Petito, “Pulcinella marito senza mugliera e zio senza nipùte”.
Il percorso ideale è proprio partire dalle farse di Petito, arricchendole
con “lazzi” e improvvisazioni, per acquisire una padronanza delle tecniche
recitative legate al ritmo ed al gioco verbale e sonoro.
Nel febbraio del 1970 Troisi, assieme a Costantino Punzo, suo amico
d’infanzia, Peppe Borrelli e Lello Arena, mette in scena un’altra
farsa di Petito, “’E spirete dint’ ’a casa ‘e Pulcinella”. Petito, uno degli
ultimi grandi Pulcinella napoletani, affascina molto i ragazzi, ed in
particolare Massimo, che nella maschera di Pulcinella intravede una forza nuova,
nascosta.
“Ho cominciato a scrivere io” racconta Troisi. “Già scrivevo poesie, ma solo per
me, poi ho cominciato a buttar giù canovacci (“Pulcinella suicida per forza” e
“Si chiama Stellina”) e tra parentesi mettevo ‘lazzi’, quando si poteva lasciar
andare la fantasia. A me divertiva proprio uscire coi ‘lazzi’, improvvisare, per
poi tornare al copione. Era il momento del teatro alternativo d’avanguardia e
tutti volevano usare Pulcinella. Rivalutarlo. C’era Pulcinella-operaio, e cose
del genere. A me questa figura pareva proprio stanca. Pensavo che bisognasse che
essere napoletano, ma senza maschera, mantenere la forza di Pulcinella:
l’imbarazzo, la timidezza, il non sapere mai da che porta entrare e le sue frasi
candide”. Questi sono gli elementi caratteristici di Pulcinella, i cui panni – e
non più solo la maschera – Troisi comincia a vestire anche al momento di
staccarsi dal canovaccio secentesco per entrare negli schemi d’intrattenimento
della comicità moderna, seguendo i passi di un’operazione quasi antropologica
sulla figura di un carattere totalmente italiano.
Smorfia
“Ci sono cose che mi mancano e che, ahimè, continueranno a mancarmi, ma quello
che più mi manca è la possibilità di stare ore a parlare con lui, ore ad
inseguire un’idea fino ad arrivare a quella giusta, a quella che ci faceva
ridere e ci faceva capire che quella era l’idea che stavamo cercando”. A parlare
è Lello Arena. L’amicizia che lega i due risale alla metà degli anni ’60 e non
li separerà mai. Nel 1969 avviene l’incontro con Enzo Decaro, Valeria Pezza e
Nico Mucci, con i quali formano "I Saraceni". Il Centro Teatro Spazio viene
aperto finalmente nel 1972. Cinque anni di tentativi di
rappresentazioni-dibattito, prima della consacrazione. Dal 1977, infatti, Troisi,
Arena e De Caro cambiano il nome in La Smorfia. Quasi per caso si esibiscono al
pubblico del Sancarluccio per sostituire Mastelloni che deve rimandare il suo
spettacolo. Si tratta dell’inizio della carriera per tutti e tre, un trampolino
dal quale mostrare l’abilità nel salto. Il pubblico li adora. Tuttora i filmati
vengono proiettati come repertorio in televisione e numerose sono i clip
“spacciati” su internet. “È un manifesto del cabaret a sketch di stampo anni
‘70”, come dirà Carlo Verdone, grande amico di Troisi. L’esperienza de La
Smorfia rappresenta un punto d’incontro della napoletanità con l’italianità.
Arena e De Caro assicurano da sempre a Troisi la figura di leader. “Massimo è
stato un leader totale, ma un leader da iceberg, era il leader più nascosto del
mondo. Forse quello che manca tanto di lui è il punto di vista, questo punto di
vista sempre sorprendente. L'artista è questo, quello che riesce sempre a
spingersi oltre il punto di vista normale.” Ecco come Enzo De Caro lo ricorda e
lo omaggia. Al periodo de La smorfia risalgono gli sketch più famosi per la
carriera di tutti e tre: “Annunciazione”, “San Gennaro” e “L’Arca di Noè”. Si
avverte subito lo sfondo superstizioso e religioso tipico della tradizione
culturale napoletana, che accompagna l’esperienza successiva dei tre soprattutto
in campo televisivo.
Televisione
Il successo de La Smorfia, oltre che dal teatro, è veicolato anche e soprattutto
dalla televisione. La trasmissione “Non stop” (1976), “La Sberla”(1978) e “Luna
Park” (1979). Lì Troisi conosce Carlo Verdone, al quale “insegna uno stile”.
“Ma”, commenta Verdone “la tv allora aveva già ritmi frenetici. Massimo era un
ragazzo veramente spiritoso, e anche molto pigro. Per questo cominciò a
preferire il cinema, soprattutto quello ideato e diretto da lui: i tempi se li
faceva da solo”.
Viva Troisi!
Da un articolo di Gianni Minà apparso sull’Unità di domenica 5 giugno 1994, il
giorno dopo la morte di Massimo Troisi:
“Come i grandi del neorealismo sapeva cogliere il
particolare delle cose, delle situazioni, perfino i tic delle persone e
trasformarli in una introspezione ironica. Eduardo De Filippo mi disse una volta
che era un comico di domani con le radici nel passato. Sotto la sua pigrizia
nascondeva però talvolta una volontà di ferro. “Il postino di Neruda”, il film
terminato sabato scorso con Philippe Noiret, lo aveva inseguito per anni, dopo
aver scoperto il libro di Skàrmeta, un autore cileno del quale mi aveva chiesto
ogni dettaglio. Forse per una volta ha voluto controllare il suo cuore per
riuscire a portare a termine un progetto amato. Se la storia è andata così, è
stata una delle poche volte che ha permesso al suo raziocinio di prevalere sulle
sue passioni. Ci mancherai tanto, Massimo”.
di Sergio Lo Gatto
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